Via Tasso, 145 (carcere) – 00185 Roma
Tel: 06.7003866 – Fax: 06.77203514
e-mail
Sito web

Orari:
dal martedì alla domenica 9.30-12.30
martedì, giovedì e venerdì 15.30-19.30
lunedì chiuso
altre chiusure: Natale, Capodanno, Pasqua, SS. Pietro e Paolo, mese di agosto
aperto, anche se di lunedì, nei giorni 8 settembre, 16 ottobre, 23 novembre, 27 gennaio, 25 aprile, 1 maggio, 2 e 4 giugno

Ingresso gratuito

Il comando di polizia e la prigione
Dopo l’occupazione di Roma l’edificio di via Tasso 145-155, che già ospitava gli uffici culturali dell’ambasciata tedesca, divenne la sede del comando del Sichereitdienst (SD, servizio di sicurezza) e della Sicherheitdienst polizei (SIPO, polizia di sicurezza), sotto il comando del ten. col. Herbert Kappler. Era il luogo dove si veniva portati, anche senza motivo, interrogati, detenuti e torturati e da cui si poteva uscire destinati al carcere di Regina Coeli, al Tribunale di guerra (condanne al carcere in Germania o alla fucilazione a Forte Bravetta), alla deportazione, oppure come accadde per molti, alle Fosse Ardeatine. Passarono per via Tasso circa duemila tra donne e uomini, partigiani, militari e cittadini comuni. Dopo la Liberazione l’edificio fu occupato da sfollati finché negli anni `50 la proprietaria donò allo Stato quattro appartamenti, con l’esplicita clausola che vi si dovesse creare il Museo storico della Liberazione, che fu inaugurato il 4 giugno 1955 e istituito come ente pubblico autonomo con legge 14 aprile 1957, n. 277.

Piano terreno
Nell’ingresso si trovano tabelle con i nomi dei membri dei comitati di Liberazione Nazionale (CLN) centrale e romano e della giunta militare, oltre alla motivazione della medaglia d’oro al valor militare alla Città di Roma. Nella sala di lettura della biblioteca cimeli, fotografie e pannelli ricordano la battaglia per la difesa di Roma dall’occupazione (8-11 settembre 1943). Alla parete un grande quadro di Georges De Canino “Il prigioniero” dedicato ad Arrigo Paladini. È inoltre esposto un festone di origami con i colori della pace, dono di un’associazione di perseguitati politici giapponesi. Nelle pareti della sala per conferenze e proiezioni trovano posto cimeli, documenti, fotografie e carte geografiche che ricordano l’organizzazione del Fronte militare clandestino della Resistenza, alcune figure di intellettuali e altri caduti; tra questi la camicia di Gioacchino Gesmundo, ucciso alle Fosse Ardeatine, altri oggetti e frammenti relativi ad altri caduti del Fosse Ardeatine e la tuta del Lager di Vincenzo Colella.

Primo piano
In questo spazio, quando non vi sono mostre temporanee, è allestita la mostra “Il Museo si racconta”, che – con documenti, fotografie, cartografie, riproduzioni di opere d’arte – ricostruisce e narra la vicenda del luogo, dell’edificio, del comando di polizia e carcere nazista e del Museo (con le sue fasi di alti e bassi): un excursus non solo nella storia urbana di Roma dell’occupazione nazista e della Resistenza, ma anche nelle fasi della costruzione della memoria pubblica dell’Italia repubblicana.

Secondo Piano
Questo appartamento è rimasto com’era all’epoca della trasformazione in carcere: finestre murate, prese d’aria, grate e spioncini alle porte. Anche carte da parati, pavimenti, impianto elettrico (non in uso) sono quelli originari. Nell’ingresso un altorilievo in bronzo ricorda Salvo D’Acquisto, che si incolpò di un’esplosione che non aveva procurato per salvare dalla rappresaglia altri ostaggi catturati con lui.
Vi sono cinque celle.
La numero 1 raccoglie la memoria dei 335 italiani uccisi alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944 per rappresaglia in seguito all’azione eseguita dai GAP (gruppi di azione patriottica) a via Rasella. Vi sono esposte motivazioni delle decorazioni di alcuni caduti e vari cimeli ritrovati all’apertura delle Fosse Ardeatine. In una bacheca è esposto l’elenco della Questura con nomi cancellati e sostituiti e anche la prima pagina dell’Osservatore Romano del 26 marzo che riporta il comunicato dell’Agenzia Stefani sull’avvenuta esecuzione dei 335.
La cella numero 2 è senza finestra e misura 1 metro x 1,5 metri, vi venivano segregati i prigionieri che nonostante le torture subite si rifiutavano di parlare. Rinchiusi senza luce e senza vitto, l’unico loro conforto è stato incidere sul muro preghiere, poesie, calendari per non perdere la cognizione del tempo, lettere di addio ai familiari, avvertimenti.
La cella numero 3 è dedicata alla memoria dei fucilati a Forte Bravetta, tra gli altri don Giuseppe Morosini, del quale nella cella è esposto lo spartito di una ninna nanna che scrisse mentre si trovava detenuto a Regina Coeli. Qui si legge anche la motivazione della decorazione a Gianfranco Mattei che, dopo il primo interrogatorio e dopo le prime torture, si impiccò in cella per il timore di non poter evitare di parlare.
La cella numero 4 è dedicata ai 14 prigionieri prelevati da via Tasso ed uccisi a La Storta/La Giustiniana, la mattina del 4 giugno, dai tedeschi in fuga: tra essi Bruno Buozzi, grande sindacalista socialista.
La cella numero 5 era in origine una cucina, in cui fu detenuto da gennaio il col. Giuseppe Cordero di Montezemolo, capo del Fronte militare clandestino della Resistenza, ucciso dopo innumerevoli torture alle Fosse Ardeatine. Vi si trova la rozza bandiera bianca che il 10 settembre servì a lui e ad altri ufficiali per attraversare le linee tedesche, sulla Tuscolana, per trattare la fine delle ostilità. Vicino alla porta dell’ appartamento un rapporto indica che il 18 maggio 1944 erano recluse 246 persone.

Terzo piano
Interno 8
Anche questo appartamento è rimasto immutato e le celle hanno le stesse caratteristiche di quelle del piano inferiore. L’ingresso è dedicato ad episodi della Resistenza laziale; un altorilievo in bronzo testimonia la gratitudine dei combattenti inglesi per i partigiani italiani.
Nella cella numero 11 è esposta una vasta raccolta di bandi e di avvisi con ordini, divieti, taglie e ricompense che testimonia il progressivo restringimento delle libertà dei cittadini, i reiterati ordini di presentazione alle armi e al lavoro, mentre la numero 12 è la cella di isolamento e contiene numerosi graffiti, tra cui quelli di due prigionieri inglesi.
La cella numero 13 contiene una raccolta delle prime pagine di giornali che venivano stampati e distribuiti clandestinamente da partiti di differente orientamento politico, a testimonianza del pluralismo politico nella Resistenza, e manifestini che le forze alleate gettavano su Roma dagli aerei. In una teca chiodi a quattro punte, usati per squarciare i copertoni di automezzi tedeschi; di fronte, un’altra teca con una pagnotta, inviata alla madre da un detenuto alla vigilia della fucilazione, sulla quale è scritto “coraggio mamma”.
Nella cella numero 14 è esposta una scelta di manifestini clandestini di diverso orientamento. Tra essi uno in tedesco che invitava i militari a disertare (ve ne fu qualche centinaio). Nella stessa stanza è esposto il primo tricolore, appartenuto alla formazione Fulvi-Mosconi, che sventolò sul Campidoglio al momento della Liberazione di Roma il 4 giugno 1944.
Interno 9
Nel corridoio sono esposte schede carcerarie e altri documenti conservati al Museo sulla deportazione di ebrei romani, un documento – incorniciato – sull’ospitalità data agli ebrei in uno dei cento e più istituti religiosi e un quadro di Giovanni Falleri che rappresenta la baracca di un Lager. Un piccolo pannello rappresenta triangoli delle categorie da sterminare. Nella sala grande vi è un’esposizione multimediale con documenti, ritagli di giornali, copie di originali delle leggi razziali fasciste, materiali di propaganda e scolastici, fotografie, ecc. che ricostruiscono le vicende degli ebrei romani dalla discriminazione alla persecuzione, alla deportazione (16 ottobre 1943, ma non solo), allo sterminio e poi alla liberazione. Due dipinti di Georges de Canino rappresentano idealmente Franco Cesana (caduto in combattimento) e Settimia Spizzichino (deportata e superstite). Una scultura di Salvo Fortuna simboleggia il dolore e la tragedia. Un monitor proietta (a richiesta) interviste di superstiti italiani provenienti da Shoah Foundation lnstitute for the Visual History and Education (University of Southern California, Los Angeles).