1943 ROMA Porta San Paolo

Porta San Paolo fa parte del complesso delle mura Aureliane realizzate dall’imperatore Aureliano nel 275 d.C. e si presenta come tra le meglio conservate di tutto il circuito murario. L’attuale nome le fu conferito nel medioevo in ragione della vicinanza alla Basilica di San Paolo, raggiungibile mediante la via Ostiense e che iniziava il suo percorso verso Ostia proprio da questa porta.
La porta oggi appare isolata ma era originariamente collegata al tratto delle Mura Aureliane che scende dalla collina di San Saba fino alla piramide di Caio Cestio. Venne isolata dalle mura già nel 1920 per agevolare il traffico nella piazza, mentre la parte delle mura che la collegava alla Piramide andò distrutta durante i bombardamenti del 1943.
Il 10 settembre 1943 fu teatro di uno degli scontri legati alla difesa di Roma.
Qui la Divisione Granatieri di Sardegna, dopo aver rifiutato di lasciarsi disarmare dai tedeschi il giorno precedente, diede luogo a furiosi combattimenti, coadiuvata da gruppi di civili.
Sui resti di un tratto delle mura sono oggi visibili quattro lapidi di epoca recente, due a ricordo dei fatti avvenuti il 10 settembre 1943, una a ricordo dello sbarco di Anzio del 4 giugno 1944 e l’ultima in memoria dei Caduti della Resistenza e del terrorismo.
L’8 settembre 2011, in occasione della cerimonia commemorativa del 68° anniversario degli scontri del 1943, è stata collocata definitivamente la Stele che ricorda i reparti militari che parteciparono alla Difesa di Roma precedentemente posizionata a Porta Capena.

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La battaglia del 10 settembre 1943 (brano liberamente tratto da un articolo scritto nel dicembre 1944 da Ezio Bacino e pubblicato sul settimanale “Domenica”)
I tedeschi avanzarono minacciosamente, ma i granatieri resistettero arretrando con ordine e sempre combattendo su di una nuova linea che andava dalla Basilica di San Paolo alla Garbatella. La nuova realtà creata dal forzato abbandono dei capisaldi 4 e 5 che coprivano il ponte della Magliana maturò le sue funeste conseguenze tattiche. Con l’abbandono dei capisaldi sulla via Ostiense e sul fiume cadde la possibilità di tenere il pianoro dominante dell’Esposizione Universale; e l’abbandono conseguente della zona dell’E42 e delle Tre Fontane, rendendo praticamente impossibile qualsiasi ulteriore e valida difesa della città.
Ebbe così inizio l’ultima battaglia feroce e micidiale tra le case, per le strade, in mezzo alla popolazione, tra tutte le cose civili, domestiche. I tram correvano alle spalle dei soldati, i ciclisti pedalavano in mezzo alle linee.
Dalla Basilica a Porta San Paolo attraverso i Mercati Generali reparti ed autocolonne si amalgamavano in un inestricabile groviglio. Perduto nel caos ogni collegamento ed ogni vincolo disciplinare, dissolta ogni possibilità di comando, reparti delle più diverse provenienze furono coinvolti nel flusso di un moto retrogrado.
I Granatieri soli ripiegarono combattendo. Il colonnello comandante Di Pierro, privo completamente di collegamenti e di mezzi di trasporto (la sua macchina giaceva sventrata alla Montagnola), riuscì a raggiungere in motocicletta il vicecomandante della Divisione generale De Rienzi, al quale sottopose la gravità della caotica situazione che si era determinata e che infuriava sulla Via Ostiense. Il generale gli mostrò un fonogramma inviatogli dal Comando di Divisione che risiedeva a Palazzo Caprara in Via XX Settembre, datato 10 settembre e firmato dal Generale Carboni, comandante del Corpo d’armata motocorazzato, che diceva: «Ordino alla Divisione Granatieri di inibire il passo a qualsiasi formazione armata tedesca che tenti di puntare su Roma. Qualora tedeschi non ottemperino ordine, che Divisione Granatieri passi con la massima violenza possibile decisamente al contrattacco. Dispongo perché tutte mie truppe disponibili affluiscano Roma appoggio “Granatieri” e “Sassari”». Nell’ora in cui il fonogramma fu compilato i tedeschi già premevano con le loro forze in continuo aumento nei pressi della Porta di San Paolo, mentre il 1° Granatieri già da due giorni combatteva senza tregua quel nemico contro il quale ora gli si ordinava di reagire.
In ogni modo, sulla base di quel tardivo ordine di Carboni, il generale De Rienzi affidò al colonnello Di Pierro il comando di tutte le forze disponibili e che stavano affluendo per la difesa della zona del Testaccio e di San Paolo. Intorno all’antica porta si riannodò faticosamente un’ultima confusa e disperata resistenza. Sugli spalti delle torri granatieri annidarono i loro fucili e le loro mitragliatrici, battendo di infilata, dall’alto, la via Ostiense.
Colà il colonnello Di Pierro tentò di riorganizzare i reparti sconvolti che si aggrovigliavano.
Le forze di cui disponeva erano innanzi tutto quelle ordinatissime del Montebello, i valorosi lancieri che già da due giorni si battevano con grande bravura in una ammirevole collaborazione con i Granatieri: giunsero poi i resti dei due decimati battaglioni del 1° Granatieri, i quali furono fermati nella zona più avanzata, quella della Garbatella. Vi erano inoltre elementi di numerosi reparti: un battaglione di un reggimento della divisione “Sassari”, resti del V° battaglione guastatori, un gruppo di obici da 100/17 della “Sassari”. Giunsero in un secondo tempo un gruppo squadroni di “Genova Cavalleri” al comando del Ten. Col. Nisco; un altro battaglione, un altro gruppo di artiglieria, una frazione di battaglione mortai, una compagnia camionette comandata dal capitano Giuffrè, un reparto di carri armati del 4° Reggimento carrista, che subirà molte perdite. Tutte queste forze furono impiegate, con lo schieramento che fu possibile attuare in tali condizioni, per sbarrare le numerose vie che da Testacccio e dal quartiere Ostiense convergevano sul centro della città.
Gli avvenimenti precipitarono e la difesa si fece disperata intorno a quest’ultima trincea. Le granate tedesche scoppiavano tra le tombe del cimitero degli inglesi intorno alla piramide; sconvolgevano la piazza dinanzi agli archi dove i cani armati ed i semoventi Montebello formavano una barricata di ferro. Tra spunzoni di rotaie recise ed erette, grovigli della rete tranviaria lacerata, rami di alberi trinciati dagli scoppi, i superstiti semoventi, le ultime autoblindo del col. Giordani si lanciavano in puntate offensive della pista micidiale della via Ostiense. Queste belle macchine, guidate alla carica con lo spirito dell’antica cavalleria italiana, saranno le protagoniste dell’ultima onorata ribellione al destino. Sono i resti di uno squadrone semoventi M15 e di uno L40, di due squadroni di autoblindo e di due squadroni di motociclisti. Dalle 9 della mattina fino circa alle quattro del pomeriggio del 10 Settembre essi si batterono a San Paolo disseminando il piazzale e la Via Ostiense con i roghi sanguigni delle loro macchine.
Il comando era lì sotto le mura, tra gli archi; e da quel termine i semoventi partivano per le loro disperate puntate offensive sulla Via Ostiense e sulla sinistra dello schieramento. Non ritornavano, fulminati dagli anticarro dei paracadutisti tedeschi postati sui fianchi della strada e nei bassi padiglioni dei Mercati Generali; oppure tornavano colpiti con morti e feriti a bordo. Caddero così il maggiore Guido Passero comandante del 2° Gruppo, il capitano Sabatini, il sottotenente Gray. Nello scafo del suo carro folgorato lasciò la vita il capitano Romolo Pugazza, che gridò a chi lo voleva soccorrere: «Non mi toccate, voglio crepare qui».
Il gruppo squadroni di “Genova Cavalleria” in parte, appiedato, sbarrava le vie più vicine alla porta sostenendo l’azione mobile delle camionette, in parte a cavallo era pronto ad intervenire in qualsiasi direzione. Ma ormai la situazione della difesa di Porta San Paolo stava precipitando: tra le 14,30 e le 15 ogni ulteriore resistenza si fece disperata e vana. Il Montebello, quasi totalmente annientato, ripiegò; ed una intensificata azione di artiglierie vicinissime sulla Porta e sulla Piramide provocò l’arretramento degli altri reparti. La piazza sconvolta dai furiosi concentramenti di fuoco fu sgombra ormai quasi silente tra roghi di macchine.

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Brano tratto da «1943: 25 Luglio – 8 Settembre» Di Ruggero Zangrandi (Feltrinelli Editore, 1964).
Il pomeriggio del 9, Raffaele si trattenne ancora in casa, a buttar giù alcuni appunti, per un discorso che avrebbe dovuto tenere l’indomani. Non si sa come abbia trascorso il resto del pomeriggio: probabilmente vide una persona che gli era molto cara. La sera – le notizie erano divenute più allarmanti – stimò opportuno recarsi in casa di un suo cognato, il giornalista svedese Gunnar Kumlien, in via Margutta, dove trascorse la notte.
[…] Per prima cosa, l’indomani mattina, il ten. Persichetti (dei Granatieri) si portò al Deposito del suo Reggimento, il 1° Granatieri, ed ebbe notizia che la situazione militare, attorno a Roma, s’era molto aggravata: proprio i Granatieri contendevano il passo ai tedeschi dalle parti della Cecchignola e alcuni elementi avevano già dovuto ripiegare verso la Basilica di San Paolo.
Raffaele si avviò verso questa località, con un altro sottotenente di complemento, a piedi. Piovigginava. Passò nei pressi del Colosseo, dove già c’era atmosfera di retrovia. Percorse il viale Aventino, truppe con carriaggi e artiglierie attendevano di essere impiegate: quello spettacolo gli diede la sensazione dell’imponenza della battaglia. Ma ancora non sapeva che la battaglia si svolgeva già nella zona di San Paolo.
Giunse all’altezza della Piramide di Caio Cestio (sarà stato mezzogiorno) e qui incontrò il comandante del suo reggimento, colonnello Mario Di Pierro, che dirigeva i combattimenti. Tolse a un soldato morto le giberne e le armi e, cosi, vestito come un garibaldino o un brigante, prese il comando di un plotone di granatieri.
Poco lontano di lì, sulla via Ostiense riconobbe il ten. col. Enrico Nisco, che comandava un gruppo di dragoni del “Genova cavalleria”, cui s’erano affiancati alcuni carri leggeri ed alcune camionette dell’8° “Lancieri di Montebello,” al comando del cap. Camillo Sabatini.
Non più di una trentina di cavalleggeri, comandati dal cap. Vannetti e dal ten. Guglielmi, difendevano accanitamente una posizione avanzata sullo stradone privo di ripari, press’a poco all’altezza dei mercati generali; e, dai grandi caseggiati, donne e popolani scendevano a tirar via i feriti e a metterli al coperto nei portoni.
Più indietro, un altro plotone di cavalleggeri, al comando del ten. San Just, teneva le alture di San Saba, mescolato a un gruppo di civili e, sulla destra della porta di San Paolo, alcune decine di granatieri e di civili, comandati dal cap. Gasparri, sbarravano le strade del quartiere Testaccio.
Un po’ dopo le 13 la battaglia si intensificò: l’artiglieria tedesca prese a picchiare duro e alcuni elementi della divisione paracadutisti cominciarono ad avanzare sull’Ostiense, addossati alle case, fino a che la fucileria italiana li costrinse ad arretrare. Cadde, in quella scaramuccia, il ten. Guglielmi, colpito da una granata. Il magg. Tallarico e alcuni civili lo portarono, insieme ad altri feriti, nel portone di uno stabile. Accorsero subito le donne della casa, con pentole d’acqua calda, strisce di lenzuola, coperte, alcool, zucchero.
Nella breve pausa che seguì, Raffaele telefonò all’amico Tommaso Carini, per raccomandargli di avviare sul posto altri compagni armati. Telefonò dal bar che è all’angolo del viale Aventino e lì Carini avrebbe richiamato: Raffaele lasciò a uno dei camerieri una piantina della zona, con l’indicazione del luogo di raccolta. Poi tornò con i suoi uomini: saranno state le 14.
A quel punto arrivarono, unendosi agli altri difensori di porta San Paolo, i superstiti di un avamposto della “Granatieri” che avevano dovuto ripiegare, con alcuni mezzi corazzati. I mortai tedeschi aumentarono e aggiustarono i tiri: ora i colpi cadevano di là dalle mura. A poca distanza da Raffaele furono colpiti, tra gli altri, il magg. Passeri e il cap. Sabatini del “Montebello”; numerose granate investirono il viale Giotto: una trentina di granatieri e una dozzina di civili furono messi fuori combattimento. Gli androni delle case vicine si riempirono di feriti e di morenti.
Alle 14,30, i quadrupedi del “Genova Cavalleria” vennero fatti spostare sulla via Marmorata, al riparo dai colpi; e il col. Nisco, con gli uomini appiedati, prese posizione nei pressi del muro che circonda la stazione Ostiense. In un punto isolato e scoperto il cap. Vannetti, già ferito a un ginocchio, continuò a brandeggiare una mitragliatrice, insieme al dragone Cavalli, fino a che furono abbattuti entrambi da una raffica. Il dragone Panzacchi tentò di raggiungere l’arma e cadde accanto a loro.
Anche Raffaele, con alcuni granatieri, fece una sortita per trarre in salvo alcuni feriti. Poi tornò ad appostarsi e a dirigere il fuoco della fucileria contro i paracadutisti tedeschi, che avanzavano a sbalzi di dieci, cinque, tre metri. Teneva d’occhio, intanto, sullo sbocco del viale Aventino, il punto di raccolta dove aveva convocato gli amici.
La battaglia ebbe altri alti e bassi, pause di minuti e furiose riprese. Alle 15,10 Raffaele si portò di nuovo al bar e telefonò alla madre, per tranquillizzarla: si scusò di non essere rientrato la notte, la rassicurò che tutto andava bene e le promise di tornare prima di sera. Dovette interrompere più volte il discorso, per tappare il microfono con la mano, perché la madre non si accorgesse degli spari. La madre udì lo stesso i colpi. E non lo vide tornare, la sera.
L’indomani mattina, Il padre dott. Giulio telefonò in casa del col. Di Pierro: gli rispose il cap. Vannutelli e gli riferì che, alle ore 14 del 10 settembre, il comando del 1° Granatieri aveva dovuto trasferirsi da porta San Paolo e che, da quel momento, il colonnello e lui stesso avevano perso di vista il ten. Persichetti.
Notizie più recenti il padre di Raffaele potè avere, lo stesso giorno, dal giornalista Attilio Battistini che si era trovato a San Paolo durante tutto il corso della battaglia e, dopo le 14, aveva riconosciuto Persichetti: “Ho visto Raffaele,” disse, “lanciarsi allo scoperto e soccorrere i feriti di viale Giotto, per portarli in un punto più riparato. La sua giacca era macchiata del loro sangue.”
Quella sera, si presentò a casa Persichetti un granatiere in borghese, che si accingeva a lasciar Roma e voleva aver notizie del ten. Persichetti, a fianco del quale aveva combattuto fin verso le 15 del giorno prima.
Solo la mattina di lunedì 13 settembre, i familiari appresero il fatto.
Narra il padre, che vide la salma di Raffaele, accanto a quelle di altri sei militari, nella sala mortuaria dell’ospedale del Littorio: “Sull’abito borghese indossava le giberne, la baionetta mancava dal fodero, da cui appariva come strappata. Raffaele era spirato per ferite da arma automatica alla regione temporoparietale sinistra e mastoidea destra.”
Era stato massacrato, insomma. Ma era morto bene. Ed era morto bene anche perché non aveva fatto in tempo a conoscere che, nell’ora stessa in cui egli spirava a San Paolo, con la sua baionetta strappata dal fodero, una piccola nave da guerra che si chiamava “Baionetta” gettava le ancore nel porto di Brindisi, dove portava in salvo il re, il principe, il maresciallo capo del governo e l’alto Comando italiano al completo.
[…]
Qualche volta passiamo per una strada romana, che è come se non esistesse perché fa tutt’uno con piazza di Porta San Paolo e piazzale Ostiense: non c’è un portone, non un numero di telefono. C’è, nei pressi, un piccolo brutto giardino, quasi sommerso nel traffico di tram, autocarri, macchine che transitano senza sosta e di centinaia di persone che corrono sempre, verso le fermate o la stazione da dove partono i treni per Ostia.
[…]
Lì, qualche volta, su una panchina, ci riesce di restar soli con Raffaele a scambiare due parole, a dargli le ultime notizie. Quel posto, che non sembra neppure una strada, si chiama appunto – nessuno lo sa – “Via Raffaele Persichetti”.

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Un ricordo
A Porta San Paolo, fra quanti ancora contendevano metro per metro l’avanzata dei paracadutisti e dei panzer tedeschi, c’era un granatiere romano, noto a tutto il 1° Reggimento, in quanto “mazziere” abilissimo della Banda Reggimentale, il granatiere Quaresima. Eppure, alzando gli occhi dal mirino, vedeva a non più di cento metri le finestre di casa sua e sapeva che dietro a quelle finestre era tutta la sua famiglia. Neppure per un istante lo sfiorò tuttavia l’idea di rifugiarsi anch’ esso fra tali mura, abbandonando la partita.
Altro esempio, sempre di un giovanissimo granatiere romano, della 12a Compagnia del 1° Reggimento, aggregato, in plotone mitraglieri, alla 9a Compagnia: il granatiere Lino Iemali, classe 1923. La sua postazione al Forte Ostiense venne investita da un fuoco infernale di artiglieria e mortai tedeschi, sino all’impiego di lanciafiamme. Benché ferito da schegge di mortaio, si prodigò a portare al riparo un altro commilitone, più gravemente ferito. Eppure la sua casa distava dalla postazione non più di duecento metri!
Trentacinque anni dopo, rivedendosi a Roma con il Tenente Capello della 9a Compagnia che comandava la postazione, si sentì porre da quest’ ultimo il quesito: «sono 35 anni che mi chiedo come mai non te la sei squagliata come tanti altri militari, trovandoti a due passi da casa». Ed il granatiere Iemali si limitò a rispondere: «Perché ero un ” fregnone!» E “fregnone” continuò ad esserlo quando, dopo il 4 Giugno 1944 si ripresentò volontariamente per essere arruolato in uno dei Battaglioni Granatieri, incorporati nei Gruppi di Combattimento, e partecipò con essi alla Guerra di Liberazione .

L’epilogo
La Montagnola e Porta San Paolo, Porta San Giovanni e Porta Ostiense, il Ponte della Magliana e l’Acquacetosa, la Via Laurentina e la Via Ostiense, il Forte Ostiense e l’Esposizione Universale furono i tanti altri teatri di eroici comportamenti individuali: del colonnello Giuseppe Ammassari che preso in ostaggio dai tedeschi ed utilizzato come scudo per avanzare verso un ponte diede ordine egli stesso ai suoi granatieri di far fuoco non preoccupandosi di poterlo colpire ed i granatieri obbedirono pur riuscendo fortunosamente a fare in modo che l’ufficiale potesse salvarsi; del sottotenente principe Alessandro Odescalchi che da solo e allo scoperto si spinse all’imbocco della Via Appia a lanciare una bomba a mano contro una camionetta tedesca che avanzava correndo e sparando all’impazzata; del tenente Argo Pasquizzi che resistette a sua volta sulle posizioni più avanzate lasciandovi un braccio; del tenente di complemento in congedo Enrico Brunelli che si presentò spontaneamente in Porta San Paolo, raccolse l’arma di un caduto e si mise a combattere a fianco dei giovani commilitoni restando ferito; del granatiere Montedoro che si lanciò ancora in un furibondo corpo a corpo benché già ferito; del granatiere Gocci caduto a fianco del suo ufficiale tenente Perna; del maggiore Felice D’Ambrosio lanciatosi alla testa del suo battaglione; del tenente Paolo de Cesaris avanzante alla testa del suo plotone reclute; del sottotenente Gino Nicoli deceduto per aver trascinato su un campo minato un carro tedesco; del granatiere Mario Santini fatto prigioniero e sfuggito ai tedeschi con audace colpo di mano pur rimanendo ferito; del tenente Gaddo Soldi; del sottotenente Guido Spadini rimasto amputato di una gamba e semiparalizzato nell’altra durante il bombardamento nemico contro Forte Ostiense (soltanto il giorno dopo potette raggiungere l’ospedale militare del Celio trasportatovi con un carrettino a mano dal granatiere Demoli e da un altro commilitone); del granatiere Serafino Zanaletti colpito a morte in volontaria rischiosa missione; dei centoventotto uomini tra ufficiali e soldati che resistettero strenuamente fino al pomeriggio del 10 settembre in Porta San Giovanni ai tedeschi avanzanti ormai in forze dall’Appia Nuova. E tra i primi caduti il comandante di una Batteria del 13° Artiglieria della Divisione Granatieri di Sardegna, figlio del colonnello Lorenzo Villoresi che era stato comandante del 2° Reggimento Granatieri durante la prima guerra mondiale. Poi, quando già si pensava di attestare l’estrema resistenza sulla linea del Colosseo e del Palazzo dell’Africa Italiana, arrivò l’ordine del “cessate il fuoco”. E la gloriosa Divisione Granatieri sull’ultima disperata linea della difesa contò gli ultimi morti in combattimento.

 

liberamente tratto” da un articolo scritto nel dicembre 1944 da Ezio Bacino e pubblicato sul settimanale “DOMENICA”